Calcio e doping

Vi sono alcuni calciatori che negli ultimi anni hanno denunciato le pratiche dopanti che si nascondevano (e si nascondono)  nel mondo del calcio. Tuttavia, sono ancora troppo pochi per fare luce completa su queste oscure vicende che “sporcano” il mondo del calcio da decenni. Molti, troppi, si nascondono ancora, per i motivi più disparati. Ciò che è sicuro, è che quasi tutte le squadre di calcio ricorrevano (e ricorrono) a questi sistemi per alterare le prestazioni sportive; purtroppo, spesso, “obbligando” gli atleti a prendere le sostanze proibite. Alcuni calciatori, è vero, forse si dopavano (e si dopano) per spavalderia, per rendere ancora di più sul campo; ma da ciò che sta emergendo, si capisce chiaramente che il tutto “era coordinato”, e che c’era la connivenza completa da parte di tutti, dalla dirigenza, agli allenatori, ai medici sportivi. Ma la cosa che fa più male (al di là delle considerazioni penali o morali della situazione) sono le conseguenze psico-fisiche sui calciatori, che nel corso degli anni hanno sofferto, soffrono e soffriranno di mali incurabili. Conseguenze che, purtroppo, spesso e volentieri portano alla morte. (Postato il 13 aprile 2013)

Un lungo triste elenco

di D'Auria Giancarlo Evaldo

Sono tante, troppe, le morti sospette nel mondo del calcio italiano. Qui di seguito, attraverso alcune ricerche, ho riportato un lungo e triste elenco di poveri calciatori deceduti nel corso degli anni (e le cause della morte). Sono i nomi degli atleti più famosi, ma ce ne sono purtroppo tantissimi altri meno conosciuti:
Giuliano Taccola (morto nel 1969 a 26 anni per un arresto cardiaco); Armando Picchi (morto nel 1971 a 35 anni per un tumore al tessuto osseo); Armando Segato (morto nel 1973 a 42 anni per il morbo di Gehrig); Giorgio Ferrini  (morto nel 1976 a 37 anni per un aneurisma); Italo Bonatti (morto nel 1977 a 33 anni per una emorragia cerebrale); Renato Curi (morto nel 1977 a 24 anni per un arresto cardiaco); Alvaro Gasparini (morto nel 1979 a 40 anni per infarto); Ernst Ocwirk (morto nel 1980 a 53 anni per sclerosi multipla); Enzo Scaini (morto nel 1983 a 27 anni per una malformazione cardiaca); Rino Gritti  (morto nel 1983 a 34 anni per mesotelioma); Fulvio Bernardini (morto nel 1984 a 78 anni per il morbo di Gehrig); Giorgio Rognoni (morto nel 1986 a 39 anni per il morbo di Gehrig); Andrea Cecotti (morto nel 1987 a 25 anni per trombosi ed embolia); Bruno Beatrice (morto nel 1987 a 39 anni per una leucemia linfoblastica acuta); Francesco Brignani (morto nel 1993 a 45 anni per trombosi); Andrea Fortunato (morto nel 1995 a 23 anni per leucemia fulminante); Guido Vincenzi (morto nel 1997 a 65 anni per una strana patologia ai muscoli); Tazio Roversi (morto nel 1999 a 52 anni per un tumore al cervello); Mauro Bicicli (morto nel 2001 a 66 anni per un tumore al fegato); Gaspare Umile (morto nel 2001 a 53 anni per un male incurabile); Fabrizio Gorin (morto nel 2002 a 48 anni per leucemia fulminante); Gianluca Signorini (morto nel 2002 a 42 anni per il morbo di Gehrig); Nello Saltutti (morto nel 2003 a 56 anni per infarto); Lauro Minghelli (morto nel 2004 a 31 anni per il morbo di Gehrig); Ugo Ferrante (morto nel 2004 a 59 anni per un tumore alle tonsille); Mario Sforzi (morto nel 2004 a 39 anni per un linfoma); Giuliano Fiorini (morto nel 2005 a 47 anni per un tumore ai polmoni); Giuseppe Longoni (morto nel 2006 a 63 anni per una grave vasculopatia); Fulvio Zuccheri (morto nel 2007 a 49 anni per infarto); Adriano Lombardi (morto nel 2007 a 62 anni per il morbo di Gehrig); Franco Rotella (morto nel 2009 a 41 anni per un melanoma); Massimo Mattolini (morto nel 2009 a 56 anni dopo una lunga malattia renale); Giorgio Mariani (morto nel 2011 a 65 anni dopo una lunga malattia); Sergio Buso (morto nel 2011 a 61 anni per leucemia); Mario Martiradonna (morto nel 2011 a 73 anni affetto da un male incurabile); Carlo Petrini (morto nel 2012 a 64 anni per una grave forma di glaucoma).
E’ doveroso inoltre ricordare altri calciatori famosi che sono scampati alla morte per un soffio, oppure sono tuttora gravemente ammalati: Giancarlo Galdiolo (malato di demenza frontale temporale, simile al morbo di Gehrig); Stefano Borgonovo (ha il morbo di Gehrig); Lionello Manfredonia (colpito da infarto nel 1989, si salvò per miracolo); Domenico Caso (guarito da un tumore al fegato); Giancarlo Antognoni (sopravvissuto ad una improvvisa crisi cardiaca nel 2004); Giancarlo De Sisti  (guarito da un ascesso al cervello); Gianluca De Ponti (guarito da un tumore, ha il morbo di Gehrig); Salvatore Garritano (ha la leucemia). (Postato il 13 aprile 2013)

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La maledizione della Fiorentina del quinquennio 1971-1976

di Claudia Migliore

Massimo Mattolini. Giuseppe Longoni. Ugo Ferrante. Mario Sforzi. Nello Saltutti. Bruno Beatrice. Nomi. Uomini. Calciatori. Con tanti punti in comune. Hanno giocato tutti nella Fiorentina. Tra gli anni ’70 e ’76. Sono tutti morti. Prematuramente. Tra il 1987 e il 2009. L’ultimo, qualche giorno fa. Il 12 ottobre 2009. Una casualità? Una maledizione? La maledizione della Fiorentina del quinquennio 1971-1976 dicono alcuni. Troppo semplice. Tra le pieghe delle vittorie, degli onori, delle sconfitte che ruotano attorno alla palla più famosa del mondo, se ne nascondono tanti di misteri. Questo è forse il più triste e doloroso della storia del calcio italiano.
Dal calcio degli anni settanta al 2009. Una catena di morti misteriose.
Il calcio degli anni settanta. Il calcio di Gigi Riva, di Roberto Pruzzo. Del Cagliari campione di italia. Dei “gemelli” Pulici e Graziani. Il calcio combattuto. Quello fisico. Senza grandi tecnicismi. Il calcio senza paura. Era una gran bella squadra la Fiorentina di quegli anni. Quella dell’ultimo scudetto e di una coppa Italia strappata al Milan d’un soffio. C’erano piedi buoni e corridori instancabili, fuoriclasse assoluti e portatori di palla. “Ci riempivano di Micoren, un farmaco che tanto bene non faceva visto che nel 1985 l’hanno tolto dal commercio – ricordava Saltutti in un’intervista all’Avvenire – Prima della partita c’era sempre un “caffè speciale” che non si sapeva di cosa fosse fatto, ma in campo ci faceva andare il doppio degli altri. Sul tavolino fuori dello spogliatoio trovavamo sempre i flaconi delle pillole, le boccette con le gocce, flebo modello damigiane e punture a volontà…”. Era un calcio senza controlli quello degli anni settanta. In cui tutto era lecito per far riprendere i calciatori velocemente da un infortunio, per mantenerli in forma, per fargli tenere la corsa e farli combattere contro i grandi. Caffè, flebo, pillole, siringhe. Il Milan come l’Inter come la Juventus e la Fiorentina. Come tante altre squadre. Forse tutte. E poi. E poi passano gli anni. Dieci, quindici. Cambia il calcio. Cambiano i campioni. Cambia la vita di chi a calcio non gioca più da tempo. E poi. E’ il 1987. Il 16 dicembre. Bruno Beatrice detto “Il mastino”, centrocampista d’interdizione della Fiorentina dal 1973 al 1976, muore. Per una leucemia mieloide. Ha 39 anni. E poi. Passano altri quindici anni. E’ il 2003. Il 27 settembre. Nello Saltutti, attaccante della Fiorentina per diversi campionati negli anni settanta, muore a 56 anni. Per un attacco di cuore. E poi l’anno dopo. Il 24 novembre 2004. Ugo Ferrante, libero della Fiorentina dalla stagione ’68-’69 al 1972, muore a 59 anni per un tumore alle tonsille. Stesso anno, 21 marzo. Mario Sforzi. Due stagioni nelle giovanili della fiorentina. Muore per un linfoma. E poi ancora il 2006. 22 marzo. Giuseppe Longoni, terzino sinistro della Fiorentina negli anni ‘70-’73, muore per vasculopatia cronica e lesioni cerebrali, a 56 anni. E poi oggi. Massimo Mattolini. Portiere della Fiorentina negli anni 70. E’ morto qualche giorno fa, il 12 ottobre 2009, dopo una lunga malattia. Era una gran bella squadra la Fiorentina di quegli anni. C’era anche Angelo Lombardo,  morto nel 2007 per una sclerosi laterale amiotrofica. E c’erano anche Mimmo Caso, sopravvissuto ad un tumore al fegato e Giancarlo Antognoni, sopravvissuto ad una crisi cardiaca.
L’inchiesta e il mistero degli archivi scomparsi.
Numeri. Date. Strane circostanze. A molti non avranno detto niente. Ma a qualcuno, dopo questa catena di coincidenze, il dubbio è venuto che quelle morti, quei mali, non fossero proprio una casualità. La prima è stata Gabriella Bernardini, moglie di Bruno Beatrice. Su sua istanza viene aperta un’inchiesta che si prolunga fino ai giorni nostri e che viene archiviata a gennaio di quest’anno per prescrizione di tutti gli indagati. Fine. Indagine chiusa. Un’indagine lunga e complessa. Sono stati ascoltati testimoni, calciatori, allenatori. Si è scoperto un mondo di abusi di farmaci che ha accomunato tanti giocatori e tante squadre. Ma non si è arrivati ad alcuna sentenza. Non sono stati dimostrati i nessi tra le malattie e tutti i farmaci somministrati ai calciatori in quegli anni. Nessuna prova scientifica. Niente oltre il ragionevole dubbio. E qui c’è il vero mistero. La scomparsa di tutte le cartelle cliniche dei calciatori della Fiorentina di quegli anni. Sparite. Gli archivi contengono la documentazione a partire dagli anni ’80. il resto è svanito nel nulla insieme a Cecchi Gori e all’archivio della vecchia Fiorentina. Anche questo sarà un caso?

(Fonte: www.gialli.it/la-maledizione-della-fiorentina-calcio - 15 ottobre 2009)

(Postato il 25 marzo 2013)

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Bruno Beatrice: a colpi di doping

Gli eroi della Fiorentina degli anni '70 stanno morendo uno dopo l'altro. Di flebo e raggi X.

Era una gran bella squadra la Fiorentina tra gli anni '60 e '70. Quella dell'ultimo scudetto viola e di una coppa Italia strappata al Milan d'un soffio. C'erano piedi buoni e corridori instancabili, fuoriclasse assoluti e portatori d'acqua. C'era Nello Saltutti, goleador di razza, morto d'infarto nel 2003 a 56 anni; c'era Ugo Ferrante, eroe dei Mondiali in Messico, ucciso da un tumore alle tonsille nel novembre 2004; c'era Giuseppe Longoni, terzino sinistro, ridotto su una sedia a rotelle per una vasculopatia cardiaca e morto nel marzo 2006 ; c'era Adriano Lombardi, paralizzato per il morbo di Gehrig e deceduto nel novembre 2007; c'era Massimo Mattolini, il portiere, ancora vivo grazie a un trapianto di reni; c'era Mimmo Caso, che poi ha avuto un tumore al fegato; e c'era il grande Giancarlo Antognoni, che che pochi anni fa è stato vicino alla morte per un'improvvisa crisi cardiaca, a 51 anni. Ci giocava anche Bruno Beatrice, detto il "Mastino', centrocampista d'interdizione con fisico da Marcantonio e polmoni infiniti, uno che correva mille volte in difesa a recuperare e poi trascinava i compagni in avanti. Uno che gli allenatori volevano sempre in campo, anche quando lui non stava tanto bene e forse, chissà, anche per questo è morto ragazzo.  Bruno è stato il primo di quel gruppo ad andarsene via. A soli 39 anni, dopo un'agonia di 30 mesi, con la bava alla bocca, le gengive sanguinanti, le gambe un tempo statuarie ridotte a grissini, pustole dappertutto e dolori lancinanti alle ossa che non se ne andavano via nemmeno con la morfina. E' morto in una notte di dicembre del 1987, gemendo disperato: "Che cosa mi hanno fatto, che cosa mi hanno fatto?". Aveva due bambini piccoli e una moglie bellissima di nome Gabriella.

Colloquio con Gabriella Bernardini, vedova di Bruno Beatrice, morto il 16 dicembre 1987.
Signora Beatrice, perché pensa che suo marito sia morto di doping?
"Quando Bruno si è ammalato io non sapevo neppure che cosa fosse il doping. Certo, mi stupiva il fatto che quando era in ritiro prima delle partite mi tenesse al telefono per tre quarti d'ora dicendo che tanto aveva tempo, si stava facendo delle flebo. Mi faceva impressione che avesse tre buchi viola a forma di triangolo sul braccio sinistro che non gli andavano mai via. E mi lasciava perplessa anche il fatto che dopo le partite restasse sveglio e agitatissimo per due giorni. Ma non avevo mai collegato queste stranezze alla sua malattia".
E poi?
"Poi un giorno - Bruno era già morto da anni - per caso ho letto su un libro che i raggi Roentgen, in dosi eccessive, possono causare la leucemia. Per la precisione, la linfoblastica acuta, quella di Bruno".
Suo marito aveva fatto i Roentgen?
"Tutti i giorni, per tre mesi, nella primavera del '76. Aveva una pubalgia, non riusciva a finire una partita e la Fiorentina aveva bisogno di lui. Andò a Roma, da uno degli ortopedici più famosi d'Italia, il professor Lamberto Perugia. Che gli prescrisse 'riposo, impacchi caldi e umidi, elettroterapia e cauta massoterapia'. Ho qui ancora la sua lettera. Ha scritto anche: 'Solo dopo la completa scomparsa dei sintomi potrà riprendere progressiva-mente l'attività atletica'. Insomma, ci voleva tempo. Troppo tempo per la sua società".
E quindi?
"Quindi lo mandarono in un ospedale di Firenze, Villa Camerata. Il primario era un consigliere della Fiorentina, Inson Rosati. E lì iniziarono a fargli i raggi Roentgen. Volevano che fosse pronto per una partita importante del girone finale di coppa Italia. Era Sampdoria-Fiorentina, del 9 giugno 1976".
La giocò?
"No. Perché poco prima del match Bruno ricevette la telefonata di un giornalista sportivo suo amico. Gli disse: 'Sai che ti hanno scaricato? A fine stagione ti vendono al Cesena'. Mio marito andò su tutte le furie e chiese spiegazioni a Carlo Mazzone, il suo allenatore. Litigarono, finirono alle mani. Alla fine Mazzone gli urlò: 'Tu sputerai sangue fino alla fine dei tuoi giorni!'. Mi vengono i brividi a pensarci, perché poi Bruno è morto proprio così".
Per quale motivo l'avevano venduto?
"Pensavano che fosse un cavallo zoppo, da riempire di raggi per il finale di stagione e da buttare subito dopo".
Poi ci andò, al Cesena?
"Sì, fece diverse altre stagioni in giro e non ebbe sintomi del male fino al 1985. Era il 23 agosto. Bruno si era ritirato da poche settimane. Eravamo qui ad Arezzo quando lui sentì i primi dolori alle ossa del braccio sinistro. Poi anche a quello destro. Quindi alle gambe. Il volto gli divenne livido. Aveva freddo, anche se era estate. Gli diedero l'Orudis, un antireumatico. Dissero che forse era radicolite. Arrivarono altri sintomi: febbre cronica, sangue dalle gengive, puntini rossi sul volto. A novembre scoprirono la leucemia. Gli diedero pochi mesi di vita. Invece tenne duro per più di due anni: morì il 16 dicembre dell'87, tra dolori atroci. Con la schiuma alla bocca, lividi sul corpo, piaghe dappertutto. Era diventato l'ombra del calciatore che era stato. L'unica cosa che gli era rimasta di quegli anni erano i tre buchini viola sul braccio sinistro, che non gli erano mai andati via".
Si può provare che suo marito è stato ucciso dal doping?
"Tra i ragazzi della Fiorentina di quegli anni i morti e gli ammalati gravi sono un po' troppi. E i raggi Roentgen a Bruno li hanno fatti fare i dirigenti della Fiorentina perché guarisse in fretta dalla pubalgia. Tutte quelle flebo gliele imponevano i medici della società per farlo rendere di più. Non basta?".
Che cosa c'era dentro le flebo?
"Bruno mi parlava del Cortex e del Micoren. Il primo è corteccia surrenale, aiuta a recuperare più in fretta dalla fatica. Il secondo è un cardiotonico, stimola il sistema nervoso centrale. All'epoca non erano vietati, ma chi glieli dava in quelle dosi sapeva benissimo che erano molto dannosi".
C'è omertà da parte degli ex compagni di squadra di suo marito?
"Prima di morire Nello Saltutti fece racconti terribili su quello che lui e i suoi compagni erano costretti a prendere. E anche altri ragazzi della Fiorentina di allora (come Galdiolo, Ferruccio Mazzola e Speggiorin) oggi confermano le parole di Nello. Ma naturalmente c'è anche chi, come De Sisti, continua a dire che si tratta soltanto di casi fortuiti. E sì che è stato molto male anche lui, qualche anno fa: ha avuto un ascesso frontale al cervello".
E lei, signora?
"Io vivo per dare giustizia a Bruno. Per far conoscere la sua storia. E perché nessun ragazzo muoia più come lui".

Aggiornamento dell'indagine sul caso Beatrice (da un articolo uscito su "La Nazione" di Firenze il 3 gennaio 2009)
Tempo scaduto per Beatrice. Il pm: l'omicidio è prescritto.
Nessun colpevole per la morte di Bruno Beatrice, l’ex centrocampista della Fiorentina degli anni Settanta scomparso a soli 39 anni, per leucemia. Ormai il tempo della giustizia è scaduto: chiesta l'archiviazione per Mazzone e Calandriello.
Arezzo, 3 gennaio 2009
Nessun colpevole per la morte di Bruno Beatrice, l’ex centrocampista della Fiorentina degli anni Settanta scomparso nel 1987, a soli 39 anni, per leucemia. O meglio: se anche qualche responsabile ci fosse, ormai il tempo della giustizia è scaduto. Il sostituto procuratore Luigi Bocciolini, che coordina l’inchiesta condotta dai carabinieri del Nas di Firenze, ha infatti chiesto all’ufficio del giudice per le indagini preliminari di archiviare l’intera inchiesta per intervenuta prescrizione, Anche perché, nel frattempo, la famigerata legge 'Ex Cirielli' ha sforbiciato i tempi delle prescrizioni. Cinque le persone che erano state iscritte nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio preterintenzionale: l’ex allenatore viola Carlo Mazzone, l’ex primario Bruno Calandriello, all’epoca consulente della squadra, e l’altro ex primario Renzo Berzi, che dirigeva l’ospedale di Camerata dove, secondo l’accusa, Beatrice venne sottoposto a un ciclo pesantissimo di raggi Roentgen per guarire più in fretta da una pubalgia: cento sedute di raggi in appena tre mesi, dal marzo al maggio del ’76. Altri due medici coinvolti nelle indagini sono nel frattempo deceduti. La moglie di Bruno ha sempre accusato i dirigenti, l’allenatore i medici di quella Fiorentina, ha girato le procure di mezza Italia, compresa quella di Torino dove fu interrogata dal procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, ha trovato infine ascolto a Firenze, con Pm Bocciolini che ora getta la spugna per la prescrizione. La famiglia di Bruno Beatrice non potrà dunque avere giustizia, a conclusione di un lungo lavoro d’indagine che aveva portato a conclusioni abbastanza chiare. La perizia disposta dal pm Bocciolini era stata netta: "Sussiste - scriveva l’ematologo D’Onofrio - una compatibilità tra la massiccia terapia praticata nel 1976 e la leucemia acuta diagnosticata a Beatrice nel 1985. Le radiazioni assorbite anche a dosi basse aumentano il rischio di cancro, in particolare di leucemia". Un trattamento che, secondo i consulenti del pm, "fu assolutamente scorretto tanto per il numero di sedute quanto per la supposta dose somministrata". Per i carabinieri del Nas fu "un approccio terapeutico omicida" e "spinto da logiche di sfruttamento dell’atleta, considerato più alla stregua di animale da reddito che di essere umano". Parole chiare e forti, ma che, banalmente, non sono più utilizzabili. Il tempo è scaduto, la rabbia della famiglia di Beatrice no: "Provo grande rabbia e amarezza - ha commentato il figlio del calciatore, Alessandro -. Sono grato agli investigatori che hanno lavorato bene e che hanno ottenuto grandi risultati, ma avrei voluto che gli indagati si presentassero davanti a un giudice, che rispondessero alle domande durante un processo. Oggi so che forse qualcuno è responsabile della sua morte. Non riesco ad accettare l’idea che questo qualcuno non possa essere giudicato solo per una questione di prescrizione, di tempi. Spero che il gip non accolga la richiesta di archiviazione".

(Fonte: www.storiedicalcio.altervista.org/beatrice_bruno.html - 2008)

(Postato il 2 aprile 2013)

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Ferruccio Mazzola: “L’Inter comprava gli arbitri! Herrera dopava i giocatori!”

(Introduzione di Piercarlo Rizza)

Da interista mi si stringe il cuore, ma da sportivo non posso non dare peso alle affermazioni di Mazzola, date già nel 2004. Comincio per dire che non si tratta del famoso Sandro, ma del fratello Ferruccio Mazzola (che comunque ha giocato, anche se poco nell’Inter, 85 presenze, nella Lazio 16, nella Fiorentina, etc.), che ha lasciato questa intervista che non tutti conoscono, come non tutti sanno che ha vinto in tribunale proprio contro Facchetti e l’Inter, che lo avevano querelato per diffamazione. Ecco l’intervista:

“Se avessi voluto davvero fare del male all’Inter, in quel libro avrei scritto anche tante altre cose. Avrei parlato delle partite truccate e degli arbitri comprati, specie nelle coppe. Invece ho lasciato perdere… Sono stato anch’io in quell’Inter – dice –. Il mister ci dava delle pasticche, credo anfetamine, da mettere sotto la lingua. Fu mio fratello a dirmi: se non vuoi ingoiarla vai in bagno e buttala. Ma Herrera se ne accorse, e iniziò a farcele sciogliere nel caffè”. Mazzola, che nell’Inter di Herrera giocò solo una partita in campionato, ricorda le conseguenze di quel caffè bevuto prima di una gara con il Como, nel 1967. «Dopo la partita sono stato tre giorni e tre notti in uno stato di allucinazione totale, come un epilettico. Ho visto l’allenatore Helenio Herrera – dice Mazzola – che dava le pasticche da mettere sotto la lingua. Le sperimentava sulle riserve (io ero spesso tra quelle) e poi le dava anche ai titolari. Un giorno Herrera si accorse che le sputavamo, allora si mise a scioglierle nel caffè. Da quel giorno il ‘caffè di Herrera divenne una prassi all’Inter.”
Ma era solo nell’Inter che ci si dopava in quegli anni?
”Certo che no. Io sono stato anche nella Fiorentina e nella Lazio, quindi posso parlare direttamente anche di quelle esperienze. A Firenze, il sabato mattina, passavano o il massaggiatore o il medico sociale e ci facevano fare delle flebo, le stesse di cui parlava Bruno Beatrice a sua moglie. Io ero in camera con Giancarlo De Sisti e le prendevamo insieme. Non che fossero obbligatorie, ma chi non le prendeva poi difficilmente giocava. Di quella squadra, ormai si sa, oltre a Bruno Beatrice, sono morti Ugo Ferrante (arresto cardiaco nel 2003) e Nello Saltutti (carcinoma nel 2004). Altri hanno avuto malattie gravissime, come Mimmo Caso, Massimo Mattolini, lo stesso De Sisti...”.
De Sisti ha smentito di essersi mai dopato.
“Picchio in televisione dice una cosa, quando siamo fuori insieme a fumare una sigaretta ne dice un’altra…”.
E alla Lazio?
“Lì ci davano il Villescon, un farmaco che non faceva sentire la fatica. Arrivava direttamente dalla farmacia. Roba che ti faceva andare come un treno”.
Altre squadre?
”Quando Herrera passò alla Roma, portò gli stessi metodi che aveva usato all’Inter. Di che cosa pensa che sia morto il centravanti giallorosso Giuliano Taccola, a 26 anni, durante una trasferta a Cagliari, nel ’69?”.
Ma secondo lei perché ancora adesso nessuno parlerebbe? Ormai sono – siete – tutti uomini di sessant’anni…
”Quelli che stanno ancora nel calcio non vogliono esporsi, hanno paura di rimanere tagliati fuori dal giro. Sono tutti legati a un sistema, non vogliono perdere i loro privilegi, andare in tv, e così via. Prenda mio fratello: è stato trattato malissimo dall’Inter, l’hanno cacciato via in una maniera orrenda e gli hanno perfino tolto la tessera onoraria per entrare a San Siro, ma lui ha lo stesso paura di inimicarsi i dirigenti nerazzurri e ne parla sempre benissimo in tv. Mariolino Corso, uno che pure ha avuto gravi problemi cardiaci proprio per quelle pasticchette, va in giro a dire che non mi conosce nemmeno. Anche Angelillo, che è stato malissimo al cuore, non vuole dire niente: sa, lui lavora ancora come osservatore per l’Inter. A parlare di quegli anni sono solo i parenti di chi se n’è andato, come Gabriella Beatrice o Alessio Saltutti, il figlio di Nello. È con loro che, grazie all’avvocato della signora Beatrice, Odo Lombardo, ora sta nascendo un’associazione di vittime del doping nel calcio”.
Certo, se un grande campione come suo fratello fosse dalla vostra parte, la vostra battaglia avrebbe un testimonial straordinario…
”Per dirla chiaramente, Sandro non ha le palle per fare una cosa così”.
E oggi secondo lei il doping c’è ancora?
”Sì, soprattutto nei campionati dilettanti, dove non esistono controlli: lì si bombano come bestie. Quello che più mi fa male però sono i ragazzini…”.
I ragazzini?
”Ormai iniziano a dare pillole e beveroni a partire dai 14-15 anni. Io lavoro con la squadra della Borghesiana, a Roma, dove gioca anche mio figlio Michele, e dico sempre ai ragazzi di stare attenti anche al tè caldo, se non sanno cosa c’è dentro. Ho fatto anche una deposizione per il tribunale dei minori di Milano: stanno arrivando decine di denunce di padri e madri i cui figli prendono roba strana, magari corrono come dei matti in campo e poi si addormentano sul banco il giorno dopo, a scuola. Ecco, è per loro che io sto tirando fuori tutto.”
Poi ecco anche l’elenco dei morti per malattie che secondo Mazzola sono da collegare al “caffè di Herrera”:
- Armando Picchi: morto a 36 anni nel 1971 per tumore alla colonna vertebrale
- Giuliano Taccola morto a soli 26 anni dopo una trasferta della squadra capitolina a Cagliari durante il primo anno di Herrera sulla panchina giallorossa
- Marcello Giusti: morto a 54 anni nel 1999 per tumore cerebrale
- Carlo Tagnin: morto a 67 anni nel 2000 per osteosarcoma
- Mauro Bicicli: morto a 66 anni nel 2001 per tumore al fegato
- Ferdinando Miniussi: morto a 61 anni nel 2001 per epatite C
- Giuseppe Longoni: morto a 64 anni nel 2006 per vasculopatia cronica
- Enea Masiero: morto a 65 anni nel 2009 per tumore
A questa lista, cui aggiungiamo Giacinto Facchetti: morto a 64 anni nel 2006 per tumore al pancreas ancora vivo al tempo dell’intervista. Ora, non c’è dato sapere se la storia di Ferruccio. Mazzola sia falsa e se sia fango, ma effettivamente la lista di giocatori grandi atleti morti quasi tutti per patologie compatibili al doping, sopratutto giocatori che hanno vestito negli anni la stessa  maglia della squadra accusata da Mazzola, fa riflettere. Caso? Giocavano sull’amianto invece che sull’erbetta? Mazzola dice la verità? Sopratutto fa riflettere che un tribunale abbia respinto la querela dell’Inter, dando ragione a Mazzola e che, dispiace  dirlo, nelle ultime intercettazioni emerse, Facchetti non risulta essere lo sportivo super corretto e onesto che tutti credevamo fosse. Ovviamente non facciamo l’errore di pensare che la questione riguardi solo l’Inter, come Calciopoli non riguardava solo la Juventus. Anche in questo caso riguarda il calcio in generale.

(Fonte: www.divulgazionenocensura.wordpress.com - 8 luglio 2011 - Questo link ho provato ad aprirlo il 20 ottobre 2013, ma il blog di Piercarlo Rizza non si trova più in Rete)

(Postato il 10 aprile 2013)

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Nello Saltutti: La pozione magica

(Articolo tratto da: Palla avvelenata - morti misteriose, doping e sospetti nel mondo del calcio, di Fabrizio Calzia e Massimiliano Castellani – Bradipolibri - 2003)

''Se avessi saputo che per tutta quella roba avrei perso amici, e rischiato di morire anch’io, non credo che potendo tornare indietro, rifarei tutto da capo. E mi domando, se valga ancora la pena che un giovane sacrifichi tutta la sua vita per un calcio del genere''. Si chiude così l’ultima intervista a Nello Saltutti pubblicata su “Palla avvelenata”, volume che corre parallelo all’indagine Guariniello (a sua volta 'lanciata' dalle famose dichiarazioni di Zeman nell’agosto 1998) sulle malattie e le morti sospette nel calcio. Fulcro del volume è la raccolta di interviste ai giocatori colpiti o ai loro familiari, ritratti personali e drammatici che costituiscono spesso un significativo j’accuse nei confronti del mondo pallonaro. Nello Saltutti, già colpito da infarto alcuni anni or sono, risultava fra i più tenaci, espliciti e dettagliati accusatori del presunto fenomeno doping. Lo si evince dal testo dell’intervista.
"È tornato Nello", dicono i pensionati in adunata quotidiana davanti alla rotonda della Rocca Flea (Gualdo Tadino, dove Saltutti è nato il 16 giugno 1947), quando lui imbocca la salita di casa. È tornato per sempre, la gloria gualdese, Nello Saltutti. L’eterno bomber baffuto oggi ha qualche capello in meno, raccolto in un codino da guerriero tartaro, ultima traccia di una gioventù sfumata. Ma lo spirito, quello resta giovane nonostante gli acciacchi di un cinquantenne cardiopatico che cerca di godersi la meritata pensione di calciatore. Il riposo del "Levriero", sdraiato nel salotto di una casa enorme, dopo la solita corsa del pomeriggio: "12-13 km, giusto per tenermi in forma''. Footing leggero in compagnia di Rosalba, da 38 anni al suo fianco e consigliato dal dott. Coletti, il medico di fiducia: ''La maratona serve a smaltire i grassi e grazie ai suoi consigli ho evitato il bypass''. Una scelta di cuore, come sempre, quella di Nello. Tornare a passeggiare tra gli orti e gli ulivi dove aveva mosso i primi passi nel 1947, per poi andar via. Agli inizi degli anni ‘50, suo padre Giuseppe, per sfuggire alla fame che a quei tempi circolava anche nell’odierna fiorente "ceramista" Gualdo Tadino, emigrò con la famiglia in Lussemburgo. Fatica nera di minatore, a sputare silicosi sul carbone, mentre il piccolo Nello si divertiva a giocare a calcio.''Ho cominciato lassù, nei giovani dell’Esch-Sur-Alzette, la Juventus lussemburghese. Mi allenava un belga, un certo Berry, che appena presa la licenza media mi disse: 'Nello che ci stai a fare qui? Prova a diventare un calciatore sul serio. Tornatene in Italia'''. Quattordici anni e il cuore pieno di paura, come il Nino della "leva calcistica" di De Gregori, Nello convinse il padre a mandarlo un anno a provare a Firenze. ''Papà mi mandava 30 mila lire al mese per farmi mantenere in casa dello zio Aldo, guardia forestale, che mi incoraggiò nei vari provini che sostenni con il Prato e poi alla Fiorentina. Ma finì che mi scartarono". Bruciò quella bocciatura al piccolo Nello, ma lui aveva sette vite e si rimise in sella. Lavoro al mattino e allenamenti al pomeriggio nel Club Sportivo Le Cascine. Non era la Fiorentina, però, e in famiglia cominciarono a temere che con il calcio forse era meglio lasciar perdere. Quando una mattina, ecco avverarsi il primo miracolo della sua vita: un talent-scout della zona che stava per partire con il solito “carico” di belle speranze, da sottoporre all’attenzione degli osservatori del Milan. Nello finì tra i 400 aspiranti, ma non si smarrì. Sotto gli occhi vigili dei tecnici rossoneri si giocò fino all’ultima goccia di sudore tutte le sue chance di restare in Italia, ed evitare di finire in fabbrica o nelle miniere di Lussemburgo. "Ebbi la fortuna di giocare proprio sul campo dove stava Liedholm, che prendeva appunti su un taccuino". Era l’inizio di un sogno, e dopo tanta gavetta nella formazione Primavera finalmente il 15 gennaio del 1967, l’esordio in serie A spodestando addirittura Sormani. Con la freddezza del veterano, entrò nel tempio di San Siro al fianco di Rivera. Quel giorno il Milan affrontava il Bologna, e lui, come tutti i talenti baciati dalla buona stella, andò subito in gol. "Mi ricordo che Amarildo fece un tiro che attraversò tutta l’area piccola e io mi avventai più veloce dei terzini bolognesi e misi dentro. Poi loro pareggiarono, ma quel debutto con tanto di rete, fece talmente rumore che alla sera Enzo Tortora mi volle ospite alla Domenica Sportiva. Tanti complimenti e persino un autoradio in regalo, quando non avevo neppure la macchina... Sarebbe stata una serata fantastica, se non mi fosse ingenuamente scappata una frase in diretta: 'Sorpreso? Beh io veramente sono uno abituato a fare gol'. Non l’avessi mai detto, Silvestri, arrivato nel frattempo al posto di Liedholm, mi aspettò al varco a Milanello e mi prese a calci nel sedere. Ai tempi, i giovani in prima squadra li trattavano così, mica come adesso. E poi inseguendomi minaccioso mi gridò: 'Tu sei un montato, da adesso in poi non giocherai più'''. Minaccia mantenuta, perché poi quell’anno disputò solo un’altra partita. Pessima replica. Alla fine lasciava Milano con tanti rimpianti, ma anche con un gol in serie A. E 15 centimetri in più, per via di quelle prime "pozioni magiche" che imparò a sorseggiare in fretta.  “Quando ero ancora nella Primavera già mi davano di tutto, l’infermeria del Milan era una cosa impressionante, e non so se sarà stato un caso, ma io da un metro e sessanta, in un anno ero passato ai miei 175 centimetri.. Strano no? All’epoca però non ho mai riflettuto su quella strana crescita. Mi infastidiva di più ripensare a Silvestri che mi mandò in prestito a Lecco, in serie B''. Fece 8 gol che poi è rimasta la media di una vita, quella giusta di una punta guizzante che a Foggia venne valorizzata da un grande maestro del calcio italiano, mai troppo rimpianto. ''Al Foggia furono quattro anni meravigliosi, con quello che considero un secondo padre: Tommaso Maestrelli. Segnavo e giocavo bene e ricordo con tanta nostalgia mia madre Rotilia, tifosa scatenata in tribuna, che scendeva spesso dal Lussemburgo per venirmi a vedere. Tanti momenti di estrema complicità con Maestrelli e le sue lacrime sincere, quando con la sua Lazio nel sottopassaggio dello stadio di Firenze gli annunciai che mia madre stava morendo di un cancro al fegato a soli 55 anni. Qualche anno dopo, lo stesso male avrebbe ucciso anche lui...”. Coincidenze maledette della vita. Eppure piacevoli casualità, come quel suo ritorno da giocatore nella Firenze in cui pensavano che non andasse bene per il calcio. Un trasferimento imposto da Liedholm, che lo riabbracciava uomo fatto. ''Cominciai male e le prime partite non c’era verso di vedere la porta. Allora una sera il mister mi chiama a casa e mi dice: 'Nello preparati che ti passo a prendere con la macchina'. Una telefonata strana, e ancor più sospetto fu quando ad un certo punto si fermò in uno di quei ponti isolati di Firenze. Mi disse: 'Scendi, che ci sta aspettando'. Non potevo credere ai miei occhi quando arrivammo. Mi aveva portato da una fattucchiera, per togliermi il malocchio. Poi seppi che quella era una pratica che faceva spesso, ma per me fu la prima e l’unica volta''. Incantesimo sciolto. A partire dalla domenica seguente, fece sei gol in sette partite. Non aveva più segnato da quella partita amichevole in terra inglese, la gara più bella della sua carriera. Una prestazione da incorniciare, favorita forse, anche da un 'caffè speciale' bevuto prima di entrare in campo. ''Passò un thermos. Dovevamo bere, ci dissero, perché era un caffè e ci avrebbe fatto bene. Io non lo prendevo mai il caffè e non vedevo la ragione di cominciare proprio quella sera che giocavamo una partita così prestigiosa contro il Manchester United''.  E impresa fu. Saltutti con quel caffè bevuto a strozzo, diventò ancora più veloce del solito. Praticamente immarcabile. Fece il gol dell’1-1 e incantò persino i tifosi dei 'Red Devils' al punto che i tabloid britannici all’indomani titolarono il pari come la vittoria del 'Levriero italiano'. "Quel caffè ci aveva fatto bene in campo, correvamo tutti il doppio. Il mattino dopo però all’aeroporto mi ricordo che avevamo certe facce. Le tenevamo tra le mani, distrutti, e non so se fosse solo per la fatica della gara  . Quel caffè speciale, negli anni in cui poi sulla panchina viola arrivarono Gigi Radice e Nereo Rocco, si trovava tranquillamente sulla tavola imbandita, in bella vista con i flaconi delle pillole, le boccette con le gocce, flebo modello damigiane e punture a volontà.  Tutta merce a necessaria disposizione dei giocatori, che si sottoponevano ad ogni trattamento per quieto vivere. Ma qualcuno, inconsapevole, ne abusava. Ero sempre in camera con Bruno Beatrice, amici inseparabili in campo e fuori, un fratello. Glielo dicevo sempre, Bruno non esagerare con quelle punture. Io non so quante se ne facesse fare, durante il ritiro era sempre sotto flebo, dal venerdì sera alla domenica; lo avevano convinto che con quelle avrebbe corso il doppio. Bruno, tanto per capirci, era uno che al naturale andava molto più forte di Davids, perciò gli chiedevo: ‘Ma che bisogno hai di farti iniettare tutte quelle schifezze?’ A noi dicevano: sono solo vitamine, prendetele e starete meglio. Ma chissà che ci davano invece...". Punture sgradite ma ingoiate, come le infiltrazioni di Voltaren potenziato o le pillole di Micoren. “Il Micoren lo hanno tolto dal mercato nell’85, perché risultò estremamente nocivo, ma intanto noi ne avevamo fatte scorpacciate per vent’anni, senza che nessun medico ci dicesse niente, e con nessun tipo di problema per le analisi del dopopartita. I controlli antidoping, poi. A ripensarci quelli erano una barzelletta: sorteggi già preparati, con le urine messe in botticelle dove si allungava la pipì con tantissima acqua e la cosa finiva lì”. Loro, i calciatori, complici di un gioco di cui non discutevano neanche e ignari di tutto. "Me le faccio per la carriera, per far star bene la famiglia un domani", mi diceva il povero Beatrice. Io ci stavo più attento, ma più per punto preso che per effettiva convinzione. Intanto poi, lui c’è morto di leucemia, e io a 50 anni, per poco non ci resto secco con un infarto''. Una pratica lunga, quanto la sua carriera di calciatore che dopo la Fiorentina sarebbe proseguita alla Sampdoria, squadra costantemente in lotta per non retrocedere, quindi alla Pistoiese, compagno di squadra di Giorgio Rognoni, che sarebbe morto prematuramente di SLA. Ultima tappa nella carriera di Saltutti il Rimini, dove con 540 presenze tra A e B e 160 gol segnati, chiuse con il professionismo a 35 anni. Una pratica selvaggia, ma consentita e accettata da tutti, senza discussioni, e tanto meno atti di ribellione. "A dirla tutta, una volta quando ormai ero a fine carriera, nel Rimini, mi sono rifiutato di fare una puntura. Allora l’allenatore venne da me e mi disse a brutto muso: 'Vorrà dire che oggi non giochi'. Finii a soffrire in panchina, in uno scontro decisivo per la salvezza contro il Palermo. Visto però che dopo 45’ eravamo sotto di due gol nel secondo tempo mi mandarono ugualmente in campo. Ero pulito, eppure corsi ugualmente e sfiorai più volte il gol. Questo a dimostrazione che anche senza punture si poteva giocare bene". Saltutti finito con il professionismo ha continuato a giocare fino a 44 anni. "L’ultima partita è stata con il Nocera Umbra, dove ero partito come allenatore". Stupiva il vecchio Levriero e gli toccava correre ancora dietro ad un pallone per mantenere una famiglia, moglie e tre figli, sfoderando tutto il repertorio di gol a tuffo d’angelo o le rovesciate che dopo quelle di Parola, divennero "alla Saltutti". Ma l’ultima rovesciata, quella decisiva gli è toccata farla al suo cuore: "Ho fatto sempre una vita da atleta scrupoloso. Mai bevuto o fumato, solo tanto allenamento, una alimentazione attenta e controllata, e quindi l’infarto di quattro anni fa fu veramente un fulmine a ciel sereno, ed ho temuto fortemente di morire. Ce l’ho fatta a scamparla e adesso sono convinto che gran parte della responsabilità del mio cuore sfasciato sia dipesa da quelle porcherie che ci hanno somministrato in tutti quegli anni. Quello che fa male è vedere che la situazione oggi è peggiorata e ci troviamo davanti ad una realtà che è diventata insostenibile e sulla quale è tempo di fare chiarezza. Occorre andare alla fonte. Cominciare a controllare quello che circola nelle infermerie delle società, perché è lì che parte tutto il marcio. Credetemi, i calciatori sono quasi sempre delle vittime, l’ultimo anello di una catena che parte dai dirigenti e qualche volta anche gli allenatori, che concordano il da farsi con lo staff medico. Personalmente continuo ad avere molta fiducia in Guariniello, ma ho anche il timore che gli interessi troppo alti che ci sono in gioco possano far insabbiare la verità. Io ho l’unica consolazione di poterla raccontare ancora, la mia storia". Una brutta storia, quella di uomini come Saltutti che hanno perso il sonno, un amico e molto di quell’entusiasmo di un tempo. "A volte la notte mi sveglio e non riesco più a dormire. Allora vengo in sala, mi siedo su questo divano e penso per ore a tante cose: a come è finito Bruno, al fatto che non so come andrà a finire questa mia vita. Se avessi saputo che per tutte quella roba avrei perso amici, e rischiato di morire anch’io, non credo che potendo tornare indietro, rifarei tutto da capo. E mi domando, se valga ancora la pena che un giovane sacrifichi tutta la sua vita per un calcio del genere".
Un triste epilogo: Nello Saltutti è deceduto il 27/09/2003. La sua morte - avvenuta all'età di cinquantasei anni a causa di un infarto - è al centro di un'inchiesta aperta nel 2005 dal Nucleo anti-sofisticazione dei carabinieri di Firenze, tesa ad accertare le effettive cause del decesso di alcuni giocatori della Fiorentina impiegati negli anni settanta, fra cui i difensori Ugo Ferrante (deceduto per un tumore alle tonsille) e Bruno Beatrice (morto di leucemia), che sarebbero stati sottoposti a cure mediche inappropriate o a cui sarebbero stati somministrati farmaci non idonei.

(Fonte: www.wrestlingweb.forumfree.it/?t=63468401 - 8 ottobre 2012)

(Postato il 10 aprile 2013)

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